tiremm innanz!

«Tiremm innanz... Così, con cuore di romano antico, incamminato a morte, Antonio Sciesa milanese, all'austriaco gendarme che vita e denaro gli offriva a patto di delazione, sprezzante e sdegnoso rispondeva. Questo marmo sulla casa ch'egli abitò lungamente consacri alla riverenza dei presenti e dei venturi la memoria del cospiratore popolano fucilato il 2 agosto1851».
Con queste parole scolpite nel marmo, Milano celebra uno dei suoi eroi più noti. La lapide è murata sull'edificio che sorge all'incrocio tra via Cesare Cantù e piazza Pio XI (nella zona compresa tra via Orefici e via Torino), oggi sede della Banca d'Italia, in cui Amatore (e non Antonio come è erroneamente riportato) Sciesa abitava al momento della condanna.
Era la notte del 30 luglio 1851. Un forte acquazzone stava bagnando la città e le strade erano deserte. Una pattuglia della polizia austriaca scoprì alcuni manifesti che inneggiavano alla rivolta contro l'odiato governo invasore. Sembravano attaccati da poco.
Non era un fatto nuovo. Dopo alcuni mesi di libertà seguiti alle Cinque Giornate del 1848, Milano era ripiombata sotto il controllo dell'Austria. Il feldmaresciallo Radetzky, dopo aver battuto l'esercito di Carlo Alberto di Savoia a Custoza, vicino a Verona, aveva ripreso il controllo di Milano e ne era stato anche nominato governatore generale. La politica del feldmaresciallo era ferocemente repressiva. Chi non si sottometteva al nuovo governo aveva poche alternative: la fuga o la morte. A dimostrazione una legge statale era stata appena promulgata da Radetzky. E non lasciava molto scampo: «In considerazione della aumentata pericolosità di sette e di movimenti fanatici, che tentano di contrastare l'autorità dell'Imperial-Regio Governo, [...] chiunque sarà colto nell'atto di svolgere attività sovversiva in qualunque forma sarà consegnato alla Gendarmeria e immediatamente impiccato». Eppure manipoli di coraggiosi rivoluzionari si battevano nell'ombra per contrastare l'invasore in attesa di tempi migliori.
Ma torniamo a quella notte del 1851. La polizia fu immediatamente sguinzagliata per Milano alla ricerca degli "attacchini" rivoluzionari. Aveva smesso di piovere, ma le strade erano ancora deserte. Nessuno si vedeva in giro. Una pattuglia, intorno alle due di notte, stava facendo ritorno in caserma a mani vuote. L'attenzione dei gendarmi fu attratta prima dal rumore di passi sul selciato ancora bagnato, poi dalla figura imponente di un uomo avvolto in un pastrano nero. Fu Antonio Ghezzi, l'ufficiale che comandava quel gruppo di uomini, a fermare lo sconosciuto e a ordinargli di dichiarare le sue generalità.
L'uomo fermato aveva dei folti baffi scuri e la barba. La sua voce era profonda: «Amatore Sciesa, di anni 37, tappezziere, abitante in via della Rosa al numero 3124». La voce dell'uomo pareva sicura, ma il Ghezzi volle approfondire. Incalzò l'uomo per sapere cosa facesse in giro a quell'ora di notte. E per giunta in una serata dal tempo così brutto. L'uomo non tentennò: «Sono stato alcune ore all'osteria. Adesso sto rientrando a casa».
La cosa era verosimile. L'uomo era stato fermato all'angolo tra via Spadari e via della Lupa (quella che al giorno d'oggi è via Torino). Via della Rosa era lì a pochi passi. Niente di sospetto. Probabilmente ci fu un attimo di silenzio. Il Ghezzi e i suoi uomini stavano vagliando le possibilità. Amatore Sciesa forse trattenne il respiro. Sapeva che si stava giocando la vita.
Il Ghezzi guardò Amatore negli occhi, poi giocò il tutto per tutto e disse ai suoi uomini di perquisirlo perché scoperto in attività sospetta. Da qui in poi la situazione precipitò. In una delle tasche del cappotto i gendarmi scoprirono sedici manifesti piegati in quattro, uguali a quelli che coprivano tutta la città. Senza indugio Amatore Sciesa fu tratto in arresto e trascinato all'Imperial Regia Direzione di Polizia, in contrada Santa Margherita.
Qui Antonio Ghezzi passò le consegne a qualche suo collega di cui le cronache non riportano il nome. L'interrogatorio a cui fu sottoposto Amatore era serrato. L'uomo cercò di giustificare il possesso dei manifesti dicendo che glieli aveva dati un uomo, davanti alla chiesa di San Giorgio. Non ricordava chi fosse. Gli aveva detto che si trattava di un giornale. Lui senza pensarci l'aveva infilato in tasca per guardarlo con calma, una volta arrivato a casa. Ma erano scuse deboli. Non ressero. Amatore capì che gli austriaci l'avevano scoperto.
Gli chiesero allora chi gli aveva ordinato di attaccare i manifesti. Chi lo interrogava sapeva di aver per le mani un pesce piccolo e sperava che, in cambio della libertà, Amatore potesse fare il nome di qualcuno che contava di più all'interno delle organizzazioni anti-austriache. Ma Sciesa era un patriota, di quelli veri. Si chiuse a riccio e rifiutò di continuare a parlare.
Il giorno dopo Sciesa fu portato in prigione. Un messo partì alla volta di Monza dove risiedeva il governatore Radetzky per sapere da lui come comportarsi. La risposta del feldmaresciallo non lasciò dubbi: «Bisogna dare un esempio. Il caso venga immediatamente liquidato e punito, postergando ogni altro affare, con la pena capitale sul luogo stesso dell'arresto».
Il processo si svolse il 2 agosto in un cortile del Castello Sforzesco. Durò pochissimo e la pena era scontata per tutti: morte. La leggenda vuole che lo Sciesa, quella stessa mattina, fu fatto passare in ceppi sotto la finestra della sua abitazione. Al balcone erano affacciati la moglie e il figlioletto. L'ufficiale austriaco che gli era accanto gli promise la libertà, gli promise di poter riabbracciare la sua famiglia, in cambio doveva solo fare i nomi delle persone che gli avevano ordinato di attaccare quei maledetti manifesti. Sciesa, con gli occhi puntati sulla moglie e il figlio che sapeva che non avrebbe mai più rivisto, liquidò l'austriaco con due sole parole, in milanese: «Tiremm innanz (andiamo avanti)!».
L'esecuzione fu compiuta in un altro cortile del Castello. Alle due del pomeriggio Amatore Sciesa venne fucilato. Non si poté impiccarlo, come voluto da Radetzky, perché il boia era appena morto. Ne era stato fatto mandare uno da Bergamo, un certo Reisinger, ma questo si lamentava di non aver trovato un "tirapiedi" (l'aiutante del boia, quello che si attacca ai piedi degli impiccati per essere sicuri che soffochino) con la giusta preparazione e si rifiutò di compiere la condanna.
Le incertezze su come andarono le cose e sul vero nome dello Sciesa nacquero perché gli atti relativi al processo furono resi consultabili solo dopo la Prima Guerra Mondiale. La targa del 1882 riporta il nome errato perché così l'aveva trascritto lo scrivano austriaco sull'atto di morte. L'episodio del passaggio sotto casa fu un'invenzione dei patrioti di quegli anni per esaltare il coraggio e l'abnegazione del loro compagno, morto per la causa anti-austriaca. Gli atti del processo confermano che lo Sciesa fu processato e poi fucilato senza mai uscire dal Castello Sforzesco.
Gli austriaci furono definitivamente cacciati da Milano nel 1859 quando la Lombardia entrò a far parte del Regno d'Italia.