cannonate delle cinque giornate - corso di porta romana, 3

Il nostro prossimo tesoro storico non è molto distante. Per raggiungerlo è sufficiente proseguire lungo via Sforza e al primo incrocio voltare a destra in corso di Porta Romana. Prima di parlare un po' di storia raggiungiamo il civico 3 della via.
Il 18 marzo 1848 cominciò l'insurrezione che poi sarebbe passata alla storia con il nome di Cinque Giornate di Milano. La popolazione, esasperata dall'invasore austriaco, ci arrivò, come sempre in questi casi, dopo una serie di piccole cause concatenate che avevano fatto covare sotto la cenere un odio che stava per divenire esplosivo.
Tutta l'Italia era in fermento in quegli anni; nel 1846 era divenuto papa Pio IX e subito aveva cominciato a scagliarsi contro gli invasori stranieri che tenevano il paese sotto il tallone della tirannia. Un papa che combatteva al loro fianco aveva galvanizzato gli aspiranti rivoluzionari che si sentivano sempre più forti e determinati. Il 1848 si era aperto con lo Sciopero del Fumo, di cui già abbiamo parlato, e in marzo la situazione era arrivata al punto di non ritorno. La causa principale dell'inizio della rivoluzione, come al solito in questi frangenti, fu un'inezia. La sera del 17 era arrivata a Milano la notizia di un'insurrezione avvenuta a Vienna che si era conclusa con l'Imperatore che era stato costretto a fare una serie di concessioni alla popolazione insorta. La mattina del 18 molti milanesi si ritrovarono al Broletto per costringere il podestà della città, Gabrio Casati, a muoversi verso il palazzo del Governo, in corso Monforte, e a chiedere formalmente al governatore austriaco Johann Baptist Spaur di scendere a compromessi con la popolazione oppure si sarebbe arrivati a una rivolta popolare. Dopo mesi in cui Milano sembrava una città fantasma, con le imposte chiuse e la cittadinanza che usciva solamente per questioni di estrema necessità, quella mattina, al passaggio del corteo che andava dal governatore, tutte le finestre si spalancarono e la gente cominciò a inneggiare all'Italia liberata e a papa Pio IX.
Quando il corteo arrivò in corso Monforte era ormai oceanico. Nel tragitto centinaia di manifestanti e rivoluzionari si erano uniti alla folla. Il governatore Spaur aveva già imboccato la via dell'Austria e se ne stava tornando a casa. Da quella mattina tutto il potere era stato riversato nelle mani del vice governatore Maximilian O'Donnel.
La situazione precipitò nel giro di pochi attimi. I dimostranti entrarono nel palazzo con l'uso della forza, visto che le guardie armate al cancello non li lasciavano passare, e presero prigioniero O' Donnel. Nel frattempo il feldmaresciallo Josef Radetzky, comandante delle truppe di stanza in città, dichiarò lo stato di emergenza e preparò i suoi uomini allo scontro. La battaglia era cominciata.
Mentre in tutta la città le campane suonavano a distesa per richiamare i milanesi alle armi (armi che in quei momenti concitati erano tutto quello che capitava per le mani: bastoni con chiodi, mazze, forconi, utensili da cucina) i rivoluzionari innalzarono barricate in ogni angolo della città. Secondo il padre della rivolta, Carlo Cattaneo, in quei giorni ne furono costruite più di 1.650.
Il 19 fu un giorno di stallo, in cui le posizioni rimasero invariate, ma già il 20 marzo i rivoluzionari cominciarono a guadagnare terreno sugli austriaci che sempre più si stavano spingendo verso la periferia della città perdendo il controllo di tutte le zone centrali.
Mentre le truppe di Radetzky cannoneggiavano verso il centro di Milano sparando a caso (più che fare dei morti tra i rivoltosi, l'intento era quello di fiaccare il morale dei milanesi), gli insorti, con un trucco ideato da un giovane prete del seminario, Antonio Stoppani, riuscirono a mettere in allerta anche gli abitanti delle campagne. L'espediente consisteva in piccoli palloni aerostatici che volavano sopra le linee austriache e atterravano in aperta campagna trasportando messaggi che inneggiavano alla rivolta. Il trucco funzionò e gli austriaci, attaccati contemporaneamente dall'interno della città e dall'esterno, furono costretti alla fuga. Il 22 marzo a Porta Tosa (oggi Porta Vittoria) i milanesi ebbero la meglio sulle ultime resistenze austriache. Milano era libera.
Una traccia di quello che successe in quei giorni di lotta la possiamo ritrovare sulla facciata di Palazzo Acerbi, il palazzo davanti al quale ci troviamo.
Prima di parlare di questo segno, è il caso di soffermarci un attimo sul palazzo e sull'ambiente che lo circonda. Corso di Porta Romana, un tempo conosciuto con il nome di Borgo Dritto, la via che arriva a Milano da Roma, era la strada un tempo deputata allo svago dei nobili.
Nel tardo pomeriggio di ogni giorno signori e dame sedevano sulle loro carrozze e cominciavano a percorrere il Borgo avanti e indietro solo per farsi vedere e per fermarsi ogni tanto a scambiare due chiacchiere (o come diremmo oggi a spettegolare) con qualcun'altro sulle novità dell'ambiente nobiliare. Gli uomini spesso usavano stare in sella ai loro cavalli, destrieri che provenivano da ogni angolo del mondo per poter essere sfoggiati come oggi si farebbe con un'auto fuoriserie. E tra una chiacchierata e un pettegolezzo si scrivevano anche liaison d'amore, più o meno segrete, fatte sempre alle spalle dei rispettivi consorti ufficiali.
Con l'arrivo qui di questa usanza (un tempo la passeggiata serale si svolgeva intorno al Castello Sforzesco, ma poi le sempre più frequenti manovre militari nel Seicento suggerirono ai nobili milanesi di trasferire altrove la moda) anche i palazzi che prospettavano sulla via furono profondamente modificati. Abitare in Porta Romana divenne segno distintivo e chi comprava casa qui immediatamente ristrutturava il palazzo perché fosse all'altezza della gran quantità di nobili che ogni giorno doveva passarci sotto (la tradizione poi si trasferirà in corso Venezia e lungo i Bastioni).
Questo è quello che fece anche il marchese Ludovico Acerbi quando comprò questo bel palazzo nel 1615 dal conte di San Secondo. Il marchese spese capitali spropositati per riedificare interamente il palazzo e dargli le forme di morigerato barocco che ancora oggi sono visibili (i graziosi balconcini ricurvi della facciata sono invece un'aggiunta settecentesca). Le assurde spese sostenute dall'Acerbi lo resero immediatamente inviso alla popolazione che stava, in quegli anni, attraversando una delle più gravi crisi economiche a cui la città era mai stata sottoposta. I cittadini per ripicca cominciarono a far girare la voce che nel palazzo al numero 3 di corso di Porta Romana abitava Satana in persona. Il marchese, tutt'altro che infastidito dalle dicerie, diede maggior vigore alla leggenda prendendo a girare per la città su una carrozza tirata da cavalli neri e sempre seguito da uno stuolo di paggetti giovani e pallidi che sembravano cadaveri.
Nel 1630 si abbatté sulla città il flagello della peste. Quando fu chiaro che l'epidemia era una delle più gravi che si fossero mai viste, i nobili che ne avevano la possibilità prepararono armi e bagagli e abbandonarono Milano alla ricerca di climi più salubri in qualche villa di campagna o ospiti di amici altrettanto ricchi. Nonostante ne avesse possibilità, l'Acerbi decise invece di restare. E non solo: mentre per le strade i morti si contavano a migliaia ogni sera, in questo palazzo si svolgevano grandiose feste dedicate a tutti i nobili che erano rimasti in città. Quella che prima era solo una diceria prese sempre più corpo quando, terminata l'epidemia, ci si accorse che né il marchese Acerbi, né nessuna delle persone ospitate nel suo palazzo erano state minimamente sfiorate dal contagio. Se non era opera del demonio cosa altro poteva essere accaduto?
Leggende e misteri a parte, torniamo a parlare delle Cinque Giornate. Se provate a guardare alla sinistra del balcone principale troverete che nel muro c'è ancora incastrata una palla di cannone sparata contro il palazzo durante gli scontri delle giornate che portarono Milano alla libertà (anche se di breve durata, sempre di libertà si trattò). Chi decise di lasciare la palla di cannone nel posto in cui aveva colpito il palazzo, si premurò di far aggiungere al di sotto una scritta su una piccola lapide che ricorda che l'impatto avvenne nel terzo giorno degli scontri il «20 marzo 1848».
Questo non è l'unico segno delle molte cannonate che furono sparate in quei giorni visibile a Milano. Abbandoniamo per un momento il percorso che stiamo intraprendendo a facciamo un salto al numero 13 di corso Venezia, dove sorge Casa de' Maestri. Il palazzo, dai limitati meriti artistici o architettonici (si tratta di un progetto dell'inizio dell'Ottocento di Marcellino Segré, un allievo del Piermarini), ha invece particolare rilevanza storica. Se guardate lo stipite sinistro del grande portone centrale non potrete non notare una sbrecciatura. Accanto si trova la scritta: «Marzo 1848». La sbrecciatura è stata fatta da una palla di cannone sparata contro la casa durante le Cinque Giornate.
E ancora. La stessa casa, sul lato che svolta in via Della Spiga, mostra il segno di un'altra cannonata anch'essa accompagnata dalla targa che riporta mese e anno del fattaccio. La potete vedere sopra la targa che indica la via.