gleno, cronaca di una tragedia annunciata

Ore 7 e 15 del 1 dicembre 1923. Il sole che sorge sulla Val di Scalve è uggioso. Una pioggia gelida e sottile scende dal cielo. Improvvisamente un ruggito sordo investe l'intera valle come l'urlo di un animale feroce. In una frazione di secondo dieci delle venticinque arcate che formano la diga del Gleno cedono di schianto. Un'enorme massa d'acqua si precipita a dirotto lungo la stretta valle. In un attimo il paese di Bueggio è completamente cancellato dalla faccia della terra. Con lui spariscono anche la centrale idroelettrica di Povo e quella di Valbona. L'acqua intanto acquista una velocità sempre più devastante. Il rumore è quello di centinaia di aerei che scendono in picchiata sui paesi come se fosse in corso un bombardamento. L'onda, nella sua furia divoratrice, si sta portando dietro tutto quello che incontra, pietre, alberi, detriti, case e l'impatto sui paesi successivi è ancora più demolente.
La massa d'acqua arriva fino ad Azzone per incanalarsi nel corso del fiume Dezzo che scende da Schilpario. L'onda sollevata dall'acqua che sbatte sulla costa della montagna prima di imboccare la valle si porta via la strada provinciale, la centrale idroelettrica di Dezzo, una fabbrica di ghisa e l'intero paese di Dezzo di Colere. Mentre la furia devastatrice prosegue la sua corsa inarrestabile, la centrale idroelettrica, che al contatto con l'acqua ha provocato un corto circuito, esplode in un'informe palla di fuoco. Alla rovina dell'acqua ora si aggiungono anche le fiamme che bruciano tutto quello che l'acqua non si è portata via.
L'onda ferma momentaneamente la sua corsa nello slargo della valle tra Dezzo e Angolo dove forma un lago di acqua melmosa e rigurgitante che si gonfia, pronto a riprendere forza e finire il suo lavoro sul fondo della valle.
Gli abitanti che si trovavano più in basso percepiscono prima un vento strano e persistente che diviene sempre più forte. Poi arriva un boato che aumentava lentamente di intensità e assomiglia al suono cupo e profondo di un terremoto. Quando i loro occhi vedono la massa biancastra adesso alta più di dieci metri che, come un pistone, affonda lungo la valle spingendo avanti il vento è ormai troppo tardi per fare qualunque cosa. È proprio il vento a iniziare a distruggere il paese scoperchiando le case e sradicando gli alberi. La terra intanto trema come se dovesse spaccarsi in due. All'arrivo della massa d'acqua tutto viene travolto e alla fine non resta più nulla, solo silenzio e devastazione.
Nel tempo di un battito di ciglia spariscono la frazione di Follo e la centrale delle Seb. Angolo Terme viene fortunosamente risparmiato. Poi l'acqua trova sfogo nella gola che percorre anche il Dezzo in direzione di Garzone e travolge la zona di Darfino, per poi riversarsi, con tutta la potenza che gli resta, nella Val Camonica e nel letto del fiume Oglio. L'onda che entra nella valle spazza via una ferriera, un'altra centrale elettrica e un'enorme fabbrica. Più a valle l'Oglio, gonfio dell'acqua che arriva dal Gleno, allaga le campagne, distrugge il cotonificio di Boario e l'intera località Attola. Darfo viene inondata dall'acqua che nel frattempo ha perso la sua spinta distruttiva e fortunatamente non ci sono vittime.
L'acqua del Gleno arresta la sua folle corsa solo nel lago d'Iseo dove riversa tonnellate di rifiuti trascinati durante il disastro: alberi, case, pietre, massi e, cosa assurda e sconvolgente, centinaia di cadaveri. Sono le 8 in punto. Solo quarantacinque minuti sono trascorsi dal crollo della Diga.
L'impianto idroelettrico del Gleno fu realizzato dalla ditta Galeazzo Viganò di Ponte Albiate, vicino a Milano. La diga era stata costruita per chiudere il Piano di Gleno nella Val di Scalve, a più di 1.500 metri di altitudine, e sbarrare così la corsa dei torrenti Povo e Bellavalle. Il bacino artificiale che si veniva a creare era un lago di 400mila metri quadrati che conteneva 6 milioni di metri cubi di acqua. Si trattava di una costruzione ciclopica, formata da un tampone che chiudeva la valle e da 25 archi di cemento armato che sbarravano il lago che si stava creando. L'acqua con il suo salto di oltre 400 metri alimentava le turbine della centrale elettrica di Bueggio e poi, con un secondo salto, quelle della centrale di Valbona.
La diga era stata iniziata nel 1916 su idea di Michelangelo Viganò. I Viganò aveva creato un'immane fortuna economica grazie ai loro cotonifici. La diga serviva proprio a creare la corrente elettrica necessaria alle fabbriche dei Viganò evitando così di doverla compare da terzi. Alla morte di Michelangelo il grandioso progetto fu portato aventi dal fratello Virgilio. Le necessità della Grande Guerra avevano fatto rincarare i prezzi delle materie prime e reso quasi impossibile avere della manodopera a prezzi accettabili. Fu così che i Viganò, per fare fronte alle spese di un progetto che diventava sempre più titanico, decisero di fondere la loro impresa con una ben più grande, che prevedeva la realizzazione di un impianto idrico per distribuire energia in tutta la valle.
La diga fu ultimata nell'estate del 1923. Il 22 ottobre dello stesso anno, per la prima volta, si riempì completamente il nuovo bacino artificiale del Gleno. Già a novembre ci si rese conto che la diga era un colabrodo. Il cemento, a contatto con l'acqua, si sfaldava e decine di buchi si aprivano in tutta la struttura. Gli ingegneri che avevano progettato la costruzione si alternarono alla diga cercando una soluzione alle perdite che diventano sempre più imponenti. Mai nessuno pensò di svuotare il bacino per fare nuovi accertamenti perché questo avrebbe previsto di smettere per un lungo periodo di produrre energia elettrica. Prima che qualcuno potesse intuire la portata del problema, a dicembre la struttura della diga cedette di schianto. Era piena da poco più di un mese.
Dopo la tragedia restò solamente il tempo dei conteggi. Freddi numeri incolonnati su una pagina che danno la dimensione assurda dell'accaduto. I danni furono calcolati in 200 milioni di lire (circa 100 milioni di euro odierni). L'acqua aveva distrutto, abitazione, fabbriche, ma aveva anche reso impossibile la coltivazione dei campi, aveva ucciso gli animali da allevamento, aveva fatto sparire i depositi di viveri, legname e ferro. La Val di Scalve era economicamente in ginocchio. Ma il numero cha fa veramente venire i brividi è il conto finale dei morti: 359 vittime.
Subito dopo la tragedia Virgilio Viganò e i suoi fratelli, che a vario titolo avevano preso parte all'impresa investendoci del denaro, assunsero i migliori tecnici e periti disponibili sulla piazza per tentare di dimostrare che la tragedia era al di là di ogni possibile previsione. Evidentemente i Viganò sapevano di avere qualcosa da nascondere.
Già prima del finire dell'anno quasi un centinaio di danneggiati inoltrarono denuncia contro la ditta Viganò ritenuta responsabile del disastro. I Viganò e il progettista Giovanni Battista Santangelo erano accusati di aver variato i piani costruttivi (inizialmente era stata fatta richiesta per la costruzione di una diga a gravità, poi trasformata in una diga ad archi multipli senza autorizzazione), per aver utilizzato calce invece di cemento nelle fasi di costruzione, per aver ignorato le diverse e notevoli perdite d'acqua che la diga aveva mostrato anche durante tutte le fasi costruttive, per non aver rispettato nessun dettame costruttivo e aver posizionato in maniera affrettata ed errata quasi tutte le murature e per aver messo in funzione la struttura senza che fosse mai stata data l'approvazione e senza che fosse mai stato eseguito alcun collaudo.
Le testimonianze del processo, pazientemente raccolte e riordinate dal dottor Giacomo Sebastiano Pedersoli nel sul libro dedicato al disastro del Gleno, sono agghiaccianti nella loro franchezza e nella dimostrazione palese di tutte le regole che i Viganò hanno violato, guidati solamente da un disperata fame di guadagni sempre più spropositati.
Già nel 1920 la Prefettura di Bergamo aveva ricevuto diverse lettere anonime in cui si diceva che la ditta Viganò usava calcina invece che cemento per la costruzione della diga trasformando il Gleno in un'arma carica puntata alla testa di tutta la popolazione che abitava la valle. Il Genio Civile fu incaricato di andare a prelevare alcuni campioni della diga in costruzione, ma questi non furono mai esaminati.
La difesa dei Viganò si basava quasi esclusivamente sul fatto che un disastro di tale portata poteva essere solo il risultato di un attentato fatto con dell'esplosivo. Questo nonostante la testimonianza di Francesco Morzenti, il guardiano della diga, che assisté a tutte le fasi della distruzione e dichiarò sotto giuramento che la diga era crollata sotto il peso dell'acqua e non per un'esplosione.
La sentenza, datata 4 luglio 1927, condannava Virgilio Viganò e il Santangelo a una multa di 7.500 lire, al risarcimento dei danni delle parti lese e a tre anni e quattro mesi di galera (pena poi alleggerita di due anni di carcere e della parte pecuniaria). Ben magra consolazione per i parenti delle quasi quattrocento vittime e per quelli che nel disastro avevano perso la casa e ogni altro bene.