Per trovare il prossimo tesoro dobbiamo fare qualche passo indietro fino all'incrocio di questa via con via Senato e riprendere corso Venezia, sempre in direzione del centro. Proseguiamo poi dritti in corso Europa. All'altezza del Verziere svoltiamo a sinistra e ci troviamo nella grande piazza dedicata a Santo Stefano.
Fermiamoci e parliamo un po' di storia. Il Santo Stefano del 1476 era un giorno freddo ma limpido. Per festeggiare il giorno dopo Natale, il potente signore di Milano, Galeazzo Maria Sforza, si stava recando dal palazzo ducale (dove oggi si trova il Palazzo Reale) fino alla chiesa di Santo Stefano per assistere alla messa. Galeazzo non era solo. Attorno a lui c'era la sua scorta armata, un manipolo di guerrieri addestrati e pericolosi che avevano il compito di difendere la vita del loro signore anche a costo della loro.
Un tempo, prima dei rifacimenti cinquecenteschi di Giuseppe Meda, la basilica di Santo Stefano era preceduta da un portico. Fu proprio sotto a quel portico che il signore di Milano fu avvicinato da un suo amico di vecchia data, Giovanni Andrea Lampugnani. La scorta inizialmente fece muro davanti al signore, ma dopo un gesto di Galeazzo, gli uomini rinfoderarono le spade e si scostarono per permettere al Lampugnani di avvicinarsi al signore di Milano e porgergli gli omaggi dovuti.
Quello che successe da qui in avanti si svolse a una velocità talmente fulminea che nessuno degli uomini della scorta fu in grado di fare alcunché. Prima che qualcuno si accorgesse della gravità di quello che stava accadendo, Galeazzo Maria si stava già accasciando al suolo.
Appena avvicinatosi il Lampugnani si inginocchiò davanti allo Sforza, come di prammatica, per potergli afferrare la mano e baciargliela. Ma quando ebbe ben salda la mano del signore di Milano, con l'altra estrasse un pugnale da sotto al mantello. Tirò a sé lo Sforza facendolo sbilanciare e mentre questo cadeva gli menò due fendenti precisissimi, uno all'addome e l'altro all'arteria femorale. Mentre Galeazzo Maria si accasciava impotente al suolo, le sue guardie, sbalordite dall'accaduto non videro altri due uomini avvicinarsi. I loro nomi: Gerolamo Olgiati e Carlo Visconti. I due cominciarono immediatamente a tirare coltellate al collo e alla testa dello Sforza ormai morente. Si dice che quattordici furono i colpi che lo raggiunsero. Nella confusione che si generò immediatamente dopo, i tre congiurati riuscirono a dileguarsi, mentre l'amico Orfeo raccolse le ultime parole del signore di Milano: «Io son morto».
Nonostante le molte opere che si erano compiute a Milano grazie a Galeazzo Maria Sforza, la navigabilità dei Navigli, la pavimentazione delle strade che prima erano in terra battuta, la creazione della prima anagrafe civile, i milanesi non avevano grande simpatia per lui. Probabilmente era a causa delle spropositate tassazioni a cui aveva sottoposto la cittadinanza, non solo per portare avanti le opere pubbliche di cui si era reso beneficiario, ma anche per mantenere il suo stile di vita fatto prevalentemente di luculliani banchetti e grandi quantità di donne sempre a disposizione. Sembra comunque che il complotto di cui cadde vittima non sia da imputare a una popolazione stanca e ribelle, come invece era accaduto nel 1412 a Giovanni Maria Visconti, ammazzato sulla soglia della chiesa di San Gottardo in Corte per punirlo dei metodi straordinariamente feroci con cui era solito trattare la cittadinanza (basti ricordare la sua muta di cani addestrati a uccidere, i famigerati can de la bisia, cani della biscia, perché portavano una medaglietta al collo con il biscione dei Visconti, che venivano lasciati liberi di girare per la città assalendo chi più preferivano. I cani dovevano ovviamente essere lasciati in pace; chiunque li avesse toccati sarebbe incorso in tremende punizioni).
Ma torniamo a Galeazzo Maria Sforza. Come dicevamo gli uomini che lo condussero alla morte non erano esasperati dai suoi comportamenti, ma la loro mano era stata armata da questioni politiche. Sembra infatti che dietro ai tre congiurati ci fosse niente meno che Luigi IX, re di Francia. Il Ducato di Milano faceva gola ai francesi e la morte di Galeazzo, che lasciava un erede di appena sette anni, Gian Galeazzo, poteva aprire notevoli possibilità di conquista (in realtà il Ducato passò nelle mani della moglie di Galeazzo, Bona di Savoia, che continuò a governare con l'aiuto dello scaltro Cicco Simonetta. I francesi dovettero aspettare qualche anno prima di poter mettere le mani su Milano).
Il giorno dell'attentato le spoglie di Galeazzo furono traslate in Duomo per essere composte per la sepoltura. Il luogo dell'ultimo riposo del signore di Milano non fu però mai reso pubblico per evitare che qualcuno volesse profanare il cadavere sulla scia dell'esaltazione che il feroce crimine aveva provocato nella cittadinanza (alcune recenti scoperte collocano la sua ultima dimora nella chiesa di sant'Andrea a Melzo, non lontano da dove abitava la favorita tra le sue amanti, Lucrezia Marliani).
Resta solamente da dire che i tre congiurati (più un quarto, tal Franzone, un domestico del Lampugnani, anche lui coinvolto nell'omicidio) furono in breve tempo arrestati e messi a morte.
Se ora guardiamo davanti alla basilica di Santo Stefano Maggiore troveremo, isolata sul selciato del sagrato, ancora una colonna di quelle che reggevano il portico sotto al quale il signore di Milano fu assassinato. Unico resto della chiesa medievale, scomparsa con i restauri che operò qui nel Cinquecento Giuseppe Meda.
Se vogliamo continuare a cercare tracce di questo episodio della storia di Milano ci basta fare qualche passo in più e, appena varcata la soglia della basilica, ci troveremo davanti a una lapide che ricorda quel tragico giorno del 1476 (a soli pochi passi dalla Pietra degli Innocenti che abbiamo ricordato in un altro capitolo di questo nostro libro).
Altre tracce della congiura che portò alla morte il signore di Milano sono conservate alla Pinacoteca Ambrosiana. Qui infatti, in una teca, è possibile vedere il pugnale che il Lampugnani usò per uccidere lo Sforza.